Epilogo

Dopo di me, il reboot

Fu uno dei confratelli ad avvisarmi. Aprì la porta della mia cella senza nemmeno bussare, una sagoma nera contro la luce del corridoio alle sue spalle.
«Il vecchio si è sentito male, lo hanno portato in infermeria,» disse. «È meglio che ti sbrighi se lo vuoi salutare, non credo che gli resta molto tempo.»
Avrei dovuto essergli grato, per aver pensato ad avvisarmi, invece lo odiai, sia per la notizia che per l’errore nel congiuntivo. Mi alzai e mi vestii al buio, pensando a quanto sono astuti i Benedettini che dormono vestiti e che non devono inquinare la drammaticità di momenti simili con pensieri come: “Dove ho messo le mutande?”.
Appena ebbi qualcosa addosso, uscii di corsa e, a piedi nudi, scesi in infermeria. Indugiai prima di aprire la porta così come avevo indugiato davanti alla porta della sua cella la prima volta che ero andato a cercarlo. Quando alla fine mi feci coraggio e l’aprii, lo vidi sdraiato su uno dei letti in fondo alla stanza. Era appena un’increspatura sul piano della coperta, ma la coperta — notai con un certo sollievo —, si muoveva leggermente, seguendo il flusso del suo respiro. Lui si accorse della mia presenza (o forse sapeva che sarei arrivato) e, con un filo di voce disse:
«Toh! guarda chi si vede: Nino lo studente..»
Stava morendo, probabilmente era l’ultima volta che ci vedevamo e mi salutava con una battuta di un film di Nino D’Angelo. Odiaii anche lui, ma per poco; giusto il tempo di capire perché l’aveva fatto.
«Sei contento, ora?» mi chiese il Maestro.
«Di cosa?» chiesi, e aggiunsi: «No, non sono contento. Perché dovrei essere contento?» Il Maestro fece due respiri prima di rispondere.
«Hai il tuo libro, no? Ti ho insegnato tutto quello che so; non servo più a nulla.»
Non capivo: voleva dire che stava morendo a causa mia?
«Non capisco,» dissi. «Vuol dire che sta morendo a causa mia?»
(Non so se ci avete fatto caso, ma quando muore qualcuno che amiamo, i pensieri e le frasi tendono a diventare meno letterarii e più elementari.)
«Tutto quello che ti ho insegnato, pensavi che scherzassi? Siamo qui per uno scopo; quando non serviamo più, possiamo essere rimossi.» Tossì, poi riprese: «L’operatore delete, ricordi? Bisogna liberare la memoria, altrimenti il programma non avrà più spazio per girare.»
Lo avevo ucciso io? Davvero? Sentii il cuore pulsarmi nelle orecchie e guardai con cupidigia uno sfigmo-manometro poggiato su uno dei tavoli dell’infermeria; chissà quanto avevo di pressione.
«Il Cielo non fa favoritismi: per lui, siamo tutti preziosi e inutili allo stesso tempo, come la Regina in una partita di Scacchi. È il pezzo più importante, dopo il Re, ma un buon giocatore non ha problemi a sacrificarlo, se questo gli permette di vincere la partita.»
Mi fece cenno di dargli un po’ d’acqua; bevve, poi riprese a parlare.
«O forse no. Ti è mai passato per la testa, che tutta questa teoria potrebbe essere sbagliata? Che potrei essere davvero pazzo, come dicono i tuoi confratelli? Wittgenstein a trent’anni, definì una filosofia che egli stesso rinnegò dieci anni dopo, a favore di un nuovo credo. Se fosse vissuto per altri dieci anni, avrebbe cambiato ancora idea? La storia dell’Umanità è costellata di idee bizzarre, ciascuna con il suo bravo seguito di fedeli; cosa ti fa pensare, che il C’hi++ sia diverso? Il fatto che possa dare una risposta razionale e coerente ad alcuni fenomeni che altrimenti sarebbero senza spiegazione non vuol dire necessariamente che corrisponda a verità. Sì, certo: i suoi assiomi sembrano trovare conferma nella realtà, ma questo cosa conta? Potremmo essere noi, che non ci accorgiamo degli errori. Abbiamo creduto per centinaja di anni che il Sole girasse intorno alla terra e anche quella era un’ipotesi confortata dai fatti, almeno apparentemente.»
Sorrise del mio sguardo perplesso, poi riprese a parlare;
«Sta’ tranquillo: non sono pazzo, ma tu non pensare che quello che ti ho insegnato sia scienza. C’hi++ non è né scienza né religione, anche se ogni tanto finge di essere o l’una o l’altra cosa. Cerca la Verità, come la scienza e prova dare un significato alla nostra esistenza, come la religione, ma non può dimostrare ciò che afferma, come la scienza, e non vuole che tu lo accetti per forza, come la religione. Lo scòpo del C’hi++ è aiutarci a vivere meglio, quindi, quello che ti devi chiedere non è se le tesi dello Spazionismo siano corrette, ma se quello che ti ho insegnato ti rende la vita migliore o no.»
Bevve un altro sorso di acqua, poi, con gli occhi chiusi, disse:
«Il tuo maestro sta morendo e tu sei visibilmente addolorato, quindi è un ottimo momento per verificarlo. Va’ fuori, guarda in alto e chiediti se quello che ti ho insegnato rende questo momento meno difficile da affrontare.»
Replicai che non mi sembrava il caso: pioveva ed ero a piedi nudi, ma era solo parte del problema: in realtà non volevo lasciarlo perché mi sembrava che le sue condizioni stessero rapidamente peggiorando.
«È l’ultima cosa che ti chiedo. Davvero me la vuoi negare?»
Mi arresi: uscii fuori, sotto la pioggia, e guardai in alto, come mi era stato ordinato di fare. La luna e le stelle erano nascoste dalle nuvole e comunque la pioggia colpiva i miei occhi impedendomi di vedere con chiarezza. Ciò non ostante, o forse proprio per questo motivo, non abbassai lo sguardo e lasciai che le gocce di pioggia si confondessero con le lacrime. Fu così che capii. Quelle gocce di acqua che adesso erano pioggia, erano state, prima, vapore acqueo e mare e fiume e prima ancora — per quello che ne potevo sapere — sangue, sudore, piscio, ghiaccio, vino, muscoli, piante, saliva, fango, calce o cemento. A qualunque cosa si fossero legate, nella loro esistenza precedente, adesso erano di nuovo acqua, ed erano pronte per un altro ciclo di vita. Il calore del sole le aveva portate in alto, ora la gravità le riportava in basso, verso il mare.
Tornai nella cella del Maestro per dirgli che avevo capito, ma la coperta non si muoveva più.
“Non importa”, pensai. “Glielo dirò la prossima volta”.


Questa è la poesia funeraria del Maestro. Una poesia funeraria “ready-made”, come la definiva lui, perché il testo è quello della poesia funeraria del monaco Zen Gesshu Soko. Il Maestro la tradusse in Tedesco quando scoprì che il verbo zu Treffen può significare sia: incontrarsi che: fare centro.

Einatmen, Ausatmen,
Vorwärts gehen, Rückwärts gehen,
Leben, sterben, kommen, gehen.
Wie zwei Pfeile, die sich im Flug treffen.
Mitten im Nichts,
Eine Straße, die direkt zu meinem wirklichen Zuhause führt.