Prologo

In principio era il login

Nacqui da famiglia ricca, ma troppo tardi.
Secondogenito, vidi la florida impresa paterna andare in dote — per diritto di nascita, ma anche per naturale inclinazione — ai miei monozigotici fratelli maggiori e, com’è consuetudine per i figli cadetti, fui avviato alla vita monastica. Entrai in seminario all’età di nove anni e presi i voti il giorno del mio diciottesimo compleanno. Conobbi il Maestro quattro anni dopo.
Fui mandato da lui perché un vecchio programma, dopo quasi un decennio di attività ininterrotta, aveva avuto dei problemi e non c’era nessuno nel monastero che sapesse come porvi rimedio. Pur avendo trascorso in quello stesso edificio due terzi della mia vita, non avevo mai incontrato il Maestro, prima di allora. Sapevo poco di lui, principalmente che non era bene saperne molto e non l’avevo mai visto né nel refettorio, né in occasione di celebrazioni o emergenze. Era, per tutti noi giovani, una sorta di figura mitologica, maligna o benigna a seconda dei racconti che su di lei si ascoltavano.
Bussai alla sua porta con cautela, quasi mi aspettassi terribili rappresaglie per quell’indebita intromissione nella sua vita e con altrettanta cautela accettai il suo invito a entrare. L’arredamento delle nostre stanze era semplice ed essenziale, ma in confronto a quello della cella del Maestro, appariva sfarzoso. Non c’erano finestre alle pareti e le uniche due fonti di luce erano una piccola lampada e lo schermo di quello che sembrava un vecchio computer risalente alla fine del XX secolo. In un angolo c’era un curioso divano-letto, simile alle panchine dei parchi, che doveva essere il suo giaciglio per la notte; al lato opposto della stanza, una sorta di libreria realizzata con mattoni e assi di legno grezzo sorreggeva i suoi pochi effetti personali. Nulla copriva la pietra del pavimento.

«Il mio programma sta dando degli errori.»
Risposi di sì, anche se la sua era stata un’affermazione. Il Maestro annuì.
«Era stato istruito a farlo. Adesso lo mettiamo a posto.»
Cominciò a battere sulla tastiera del suo computer e io mi avvicinai incuriosito. Quando arrivai a vedere l’immagine proiettata dallo schermo capii perché nessuno all’interno del convento sapesse intervenire sul suo programma.
«Sì, è C++,» disse il Maestro, intuendo la mia curiosità. «Un tempo si pensava che fosse il linguaggio del futuro. Come di tutti i linguaggi, del resto.»
Chiesi cosa volesse dire che il programma era stato istruito a dare errori.
«Questa è una domanda sciocca. D’altro canto, il fatto che stessi dicendo la verità è evidente, visto che non ti ho nemmeno chiesto che genere di difetto fosse stato rilevato. Comunque, puoi andare a dire al tuo superiore che il vecchio pazzo ha corretto l’errore.»
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dallo schermo, ero come ipnotizzato da quello strano codice che potevo capire solo in parte. In quelle sequenze di istruzioni c’era qualcosa che non avevo mai visto prima: un ritmo, una sorta di indefinibile bellezza di cui mi ero innamorato a prima vista.
Chiesi al Maestro di insegnarmi il C++.
«E perché mai? ci sono linguaggi molto più facili da usare.»
Gli spiegai che non si trattava di un interesse tecnologico, ma estetico. Lui restò in silenzio per qualche secondo, considerando quello che avevo detto, poi chiese:
«Qual’è il dovere di un programmatore?»
Lo pregai di definire meglio la sua domanda.
«Torna qui domani; se mi saprai dire qual’è il dovere di un programmatore, ti insegnerò il C++.»

Passai tutta la notte a meditare su quella strana domanda e la mattina dopo mi presentai al Maestro. Dissi che il dovere di un programmatore era quello di scrivere del buon codice. Il Maestro non distolse nemmeno lo sguardo dallo schermo e disse:
«Torna qui domani; se mi saprai dire cosa vuol dire scrivere del buon codice, io ti insegnerò il C++.»

Com’è facile intuire, anche il giorno dopo e per diversi giorni a seguire il Maestro trovò il modo di rimandare l’inizio del mio tirocinio con domande ancora più specifiche che andavano a colpire anche la più lieve lacunosità delle mie risposte. Analizzai ogni possibile aspetto della produzione del software, dall’utilizzo delle risorse di sistema alle implicazioni sociali dell’incremento dell’occupazione che deriva dall’evoluzione dei programmi, ma non ci fu nulla da fare: ogni volta il Maestro riuscì a trovare una scappatoia per venire meno al suo impegno.
Alla fine non ne potei più. Esasperato, dissi che ne avevo abbastanza di quella sua ostinata capziosità: per quanto io potessi essere specifico nelle mie risposte, ci sarebbe sempre stato un margine di indeterminazione. Se voleva insegnarmi il C++ doveva iniziare quel giorno stesso.
Il Maestro mi fissò e, sorridendo, spense il computer.
«No, per oggi basta. Vieni domani per la seconda lezione.»

Negli ultimi mesi la salute del Maestro è peggiorata e così gli ho chiesto il permesso di trascrivere i suoi insegnamenti per poterli trasmettere a mia volta ad altri discepoli.
Con mia grande sorpresa, ha accettato.